1. I bambini testimoni di violenza
La recente attenzione per le diverse forme di abuso cui sono sottoposti i bambini quali il maltrattamento fisico e psicologico, le patologie delle cure e l’abuso sessuale, ha spinto ad ampliare questa classificazione, inserendovi anche le cosiddette condizioni di “abuso assistito”, situazioni nelle quali il bambino non è concretamente abusato, ma si trova in un contesto familiare violento e abusante che determina in lui conseguenze analoghe a quelle prodotte dalle altre forme di abuso.

L’esposizione costante alla violenza familiare costringe i bambini a doversi confrontare con i comportamenti violenti dei genitori, provocando un danneggiamento evolutivo che può coincidere con:
– la normalizzazione dei comportamenti osservati;
– l’interiorizzazione dei modelli relazionali;
– i meccanismi identificativi (l’identificazione con l’aggressore o con la vittima);
– l’inibizione delle proprie sane valenze aggressive;
– la difficoltà o l’impossibilità di accedere a sentimenti di rabbia, odio, risentimento, che provocano paura o sensi di colpa;
– la controidentificazione (ad esempio: “con i miei figli non sarò mai come mio padre”).

L’assistere ripetutamente a situazioni di violenza, se non adeguatamente elaborato dal bambino, può creare un disagio espresso con diverse modalità. I sintomi ricorrenti nei bambini testimoni di violenza comprendono difficoltà:
– nell’area del comportamento (aggressività, crudeltà verso gli animali, comportamento antisociale, acting-out, iperattività);
– nell’area emotiva (ansia, rabbia, depressione, basso livello di autostima);
– nell’area cognitiva (scarso rendimento scolastico, ritardo nello sviluppo, ecc.);
– nell’area fisica [difficoltà di addormentamento o disturbi del sonno, inadeguato sviluppo psicomotorio, sintomi psicosomatici (ad esempio eczema, enuresi, ecc)].

Come accade anche nelle altre forme di abuso, nel caso dei bambini testimoni di violenza, le patologie somatiche, psicofisiche e comportamentali derivavano dalla rigidità dei meccanismi di difesa, utilizzati in modo patologico. Il bambino testimone di violenza deve, infatti, attivare modalità difensive rigide per eludere la sofferenza derivante dalle sensazioni di paura, dolore, angoscia, colpa e vergogna.

Ma diversamente da ciò che accade al bambino direttamente abusato, il permanere in una atmosfera di ripetuta violenza rende inefficaci i meccanismi di rimozione e negazione, spingendolo invece a utilizzare il distanziamento affettivo. L’uso massiccio di questo meccanismo provoca la sterilizzazione delle emozioni, con un conseguente impoverimento emotivo e cognitivo (aumenta la soglia del dolore e/o si ha una caduta del rendimento scolastico).

Il processo di distanziamento affettivo può essere realizzato anche interrompendo o rinunciando al legame con uno dei genitori. Accade frequentemente infatti che questi bambini si alleino con un genitore, rifiutando l’altro. Questa alleanza può avere due differenti direzioni: il bambino si allea con il genitore percepito come “vittima” divenendone il difensore e il paladino, oppure si allea con il genitore considerato “aggressore”, riproponendone nel corso della crescita i medesimi comportamenti violenti (ad esempio picchia anche lui la madre).

Questo gioco di alleanze può fondarsi anche su processi identificativi particolarmente pericolosi per lo sviluppo del bambino. Il bambino non solo si allea, ma anche si identifica con il genitore vittima o con l’aggressore. Questo filo di alleanze-identificazioni può avvenire anche in base alla percezione di una maggiore potenza, non necessariamente corrispondente a un comportamento violento, poiché talvolta anche il ruolo di vittima può avere delle perverse valenze di potere.

L’evitamento della sofferenza può spingere questi bambini ad utilizzare anche altre modalità difensive, quali la scissione e l’idealizzazione, spingendoli a ignorare la percezione della famiglia reale, con le reazioni emotive che suscita, rifugiandosi nell’immagine fantastica di una famiglia ideale.

Notare come la sofferenza causata dall’assistere a situazioni di violenza, se non adeguatamente elaborata dal bambino, possa creare un disagio, non significa ovviamente affermare, in maniera deterministica, che ogni bambino testimone di violenza svilupperà problematiche e sintomi affini a quelli descritti. Individuare i rischi psicopatologici cui sono esposti questi bambini permette però agli operatori di riconoscere prontamente i segnali di un disagio che può assumere forme differenti.

La maggior parte delle descrizioni delle situazioni di violenza assistita e delle loro conseguenze provengono soprattutto dalle ricerche svolte su donne maltrattate dai propri partner. Si tratta in prevalenza di donne picchiate che si rivolgono ai centri antiviolenza per la protezione delle donne. Finora però sono rimasti fuori dal campo di osservazione le situazioni sommerse, che non arrivano ai centri, specie quelle in cui la violenza tra i partner è soprattutto psicologica o sessuale.

Lavorare con i bambini testimoni di violenza, ci siamo interrogati se puntare il focus dell’intervento sui diritti e i bisogni dei genitori o su quelli dei bambini. Non sempre infatti i diritti e bisogni degli adulti corrispondono a quelli dei bambini; ad esempio una donna picchiata ha diritto di essere protetta, allontanando il marito violento da casa o offrendole un luogo dove potersi allontanare con i figli. Ma questo allontanamento dal o del marito-padre non corrisponde al diritto-bisogno del bambino di mantenere il rapporto con entrambi i genitori.

Mentre nei centri antiviolenza il fulcro dell’intervento è sostenere i diritti e le necessità delle donne maltrattate, la nostra scelta è stata quella di orientare l’intervento sui bambini e sul loro naturale bisogno di mantenere il rapporto reale con entrambi i genitori, pur riconoscendo la prioritaria necessità di proteggerli dalle ripetute esposizioni alla violenza familiare. Questa scelta si basa sulla conoscenza dello sviluppo affettivo del bambino.

2. Genitori reali e immagini genitoriali interne
Prima di esporre i presupposti del trattamento dei bambini testimoni di violenza, è necessario delineare alcune caratteristiche dello sviluppo del bambino.
Nel corso della propria vita, il bambino ha la necessità di stabilire un solido rapporto con entrambi i genitori, che non gli forniscono solo le cure fisiche e affettive di cui ha bisogno ma sono determinanti per la costruzione del mondo interno del figlio. Per comprendere il ruolo che i genitori rivestono nella costruzione della psiche infantile, è necessario far brevemente ricorso ai modelli teorici elaborati dalla psicologia dinamica, in particolare al modello della psiche elaborato da Jung e sviluppato da Fordham (1944-1969) e Neumann (1963).

Fin dalla antichità l’organizzazione familiare ha permesso agli individui di avere una struttura sociale che garantisse la loro esistenza. Nonostante esistano vari modelli di famiglia, l’esperienza di avere dei genitori che provvedono allo sviluppo dei figli è un’esperienza comune alla maggior parte delle culture, un’esperienza radicata negli strati più profondi della psiche, che costituisce un modello organizzativo.

Jung (1935-54;1909-49;1939-54) considera le figure del padre e della madre degli archetipi. Nel modello junghiano (Jung 1921, 1928, 1935-54, 1947-54), gli archetipi sono delle modalità di comportamento costituite da un polo istintuale e corporeo, connesso con i bisogni e le pulsioni, e da un polo spirituale e psichico, connesso con la capacità di sperimentare e rappresentare il mondo attraverso immagini che appartengono al patrimonio collettivo.

L’idea che padre e madre siano, come sostiene Jung, archetipi, immagini migrate nell’inconscio attraverso numerose generazioni, indipendentemente dal padre e madre reali, potrebbe essere relegata a semplice mitologia, se l’esperienza clinica, mediata dalla teoria e dalla pratica della psicologia del profondo, non ci confermasse questa ipotesi (Petri 1999).

L’esistenza all’interno della psiche dell’archetipo del padre e della madre non è tuttavia sufficiente a determinare lo sviluppo del bambino che necessita della relazione con i genitori reali. Secondo Jung il patrimonio archetipico, deve essere attivato, fin dalla nascita, dall’incontro con la realtà. L’attivazione degli archetipi genitoriali, uno dei cui aspetti riguarda l’appagamento dei bisogni primari, come quella di tutta la struttura archetipica, avviene attraverso gli stimoli ambientali.

Il bambino afferra il seno della madre sotto la spinta dell’archetipo materno che è già pronto ad essere costellato (Jung 1909-49). Nel corso della propria vita il bambino ha la necessità di stabilire un solido rapporto con entrambi i genitori, anche se questi non gli forniscono le cure fisiche, affettive di cui ha bisogno, la loro presenza reale è determinante per la costruzione del suo mondo interno. Il padre e la madre reali hanno infatti la funzione di attivare nel bambino le immagini genitoriali corrispondenti.

L’incontro del bambino con i genitori reali non attiva però solo le immagini interne del Padre e della Madre, ma costella anche l’archetipo della Famiglia, costituito dalla triade madre-padre-bambino (Montecchi 1997b). La relazione con due oggetti d’amore, la madre e il padre offre inoltre al bambino/a due diverse possibilità di identificazione, una femminile e una maschile, necessarie al suo processo di maturazione. Dalla relazione con i genitori deriva quindi anche l’attivazione del Maschile e del Femminile. L’attivazione della funzione maschile e femminile orienta l’individuo nelle relazioni con il mondo esterno (il lavoro, gli affetti, le amicizie, le relazioni di coppia), la costellazione dell’archetipo della Famiglia è necessaria sia alla costruzione di un modello familiare interno, sia successivamente di una famiglia reale (ibidem).

Solo attraverso l’integrazione degli aspetti maschili e femminili veicolati dai genitori, il bambino potrà elaborare una immagine di sé unitaria e completa. Il bambino che vive i genitori nella loro realtà di padre o madre “buoni o cattivi” potrà poi elaborare ed utilizzare l’esperienza. Quando invece è costretto a negare e a rinunciare a uno dei due genitori o non gli è possibile mantenere il rapporto con un genitore perché (ad esempio posto in condizioni di protezione), non rinuncia solo al genitore reale ma anche alla attivazione della immagine interna corrispondente. La perdita del legame con una figura genitoriale, che ha un ruolo determinante nello sviluppo, può provocare l’insorgere di patologie.

Le immagini genitoriali interne fanno parte della costruzione strutturale psichica di ogni individuo ed assumono importanti funzioni di guida nella conservazione dell’equilibrio psico-sociale. Tanto i futuri rapporti sociali, quanto la futura realizzazione del proprio ruolo di madre o di padre sono strettamente connessi al rapporto con i genitori reali e con i modelli interni che essi hanno attivato. L’alterazione e l’interruzione di questo processo può determinare delle carenze nell’assunzione della propria funzione sociale e genitoriale.

Questi considerazioni teoriche ci aiutano a comprendere quanto sia essenziale per lo sviluppo del bambino poter mantenere il rapporto con entrambi i genitori. In presenza di situazioni difficili, come accade nelle situazioni di violenza assistita, ci si può chiedere se sia corretto mantenere il rapporto del bambino con il genitore anche se questi è incompetente o pericoloso. La nostra esperienza ci porta ad affermare che, salvaguardate le esigenze di protezione del bambino, risulta meno dannoso il confronto con un genitore reale, che ne permetta di metterne a fuoco ed elaborarne gli aspetti positivi e negativi, piuttosto che l’eliminazione di una figura essenziale allo sviluppo.

Di fronte a un genitore assente o poco conosciuto, il bambino invece di confrontarsi con i limiti del genitore, provando a integrarne le caratteristiche, può reagire demonizzandolo e rifiutandolo, o, al contrario, idealizzandolo. In ogni caso la sua immagine genitoriale rimarrà scissa e il bambino non potrà utilizzare il rapporto con il genitore per modificare l’attivazione unilaterale dell’aspetto positivo o negativo dell’archetipo materno o paterno.

3. Il trattamento dei bambini testimoni di violenza
Queste riflessioni hanno orientato il nostro intervento con i bambini testimoni di violenza, spingendoci a:
– proporre un approccio innovativo, teso sia alla protezione dei bambini testimoni di violenza e alla difesa delle immagini genitoriali interne e della famiglia interna, sia al recupero della genitorialità, al fine di favorire uno sviluppo psico-affettivo del bambino, per quanto possibile, sufficientemente adeguato;
– intervenire sulla famiglia reale e sulle potenzialità del nucleo familiare, permettendo al bambino di rimanere nel suo ambiente, qualora siano presenti nella famiglia delle risorse trasformative. In questa ottica il collocamento extrafamiliare è ritenuto opportuno solo in quei rari casi in cui appare l’unico strumento in grado di proteggere il bambino dal reiterato assistere alla violenza familiare e da pressioni psicologiche che possono comprometterne lo sviluppo psicofisico.

A questo scopo la “Cura del Girasole-Onlus” ha realizzato, il progetto “Accoglienza dei bambini testimoni di violenza”.

Il progetto è rivolto in particolare:
– ai bambini testimoni di violenza;
– ai genitori attori e vittime della violenza;
– ai vari professionisti che entrano in contatto con le situazioni di conflittualità e violenza familiare.

I servizi offerti comprendono:
– la consulenza telefonica ai genitori ed ai professionisti di area socio-sanitaria, legale e giudiziaria;
– la valutazione diagnostica;
– la definizione del progetto terapeutico;
– l’attivazione dell’intervento terapeutico.

Il progetto prevede:
– la diagnosi integrata, medica, psicologica, sociale;
– le iniziative per la protezione dei bambini.

Gli obiettivi dell’intervento sui bambini testimoni di violenza e sui genitori sono:
– messa a fuoco ed elaborazione delle reazioni emotive suscitate dalla violenza assistita, gestendo l’aggressività, la paura, l’ansia, la depressione, la vergogna e il senso di colpa inevitabilmente attivati;
– supporto, tutela e terapia psicologica dei bambini;
– supporto, tutela e terapia della famiglia;
– recupero, se possibile, del rapporto con entrambe le figure genitoriali, rispettando il bisogno fondamentale del bambino di aver garantita la relazione affettiva con la madre e il padre.

Il progetto prevede varie forme di intervento rivolte al bambino e ai genitori:
Al bambino possono essere indicati:
– una psicoterapia individuale;
– una psicoterapia di gruppo (gruppi differenziati per fasce di età);
– una mediazione terapeutica delle relazioni bambini/genitori.
– un supporto psichiatrico e psico-farmacologico, se necessario.

L’intervento sui genitori può comprende:
– psicoterapia di gruppo;
– terapia familiare e/o della coppia;
– mediazione familiare.

di Francesco Montecchi tratto dal libro “Dal Bambino minaccioso al Bambino minacciato-Franco Angeli-Editore2005